Un’inguaribile veglia d’amore

Ha passato undici anni della sua vita senza mai dormire per più di un’ora di fila e qualcuno dovrà spiegarci come si fa a vivere praticamente senza chiudere occhio. Si distendeva a fianco del suo Carlo e ogni 45-50 minuti si alzava. Tutte le sante notti. «Accendevo la luce, aspiravo la cannula che gli portava il respiro, lo accarezzavo, gli sistemavo i piedi e le braccia, gli davo un bacio. Lui mi rispondeva muovendo gli occhi, l’unica cosa che riusciva a fare». Qualche minuto, poi Mirella tornava a coricarsi; ma la sveglia, inesorabile, risuonava poco dopo. Sempre così, per 11 anni: cioè 132 mesi, 4015 giorni, 96.360 ore, quasi 6 milioni di minuti, 3miliardi e mezzo di secondi. Un’inguaribile veglia d’amore.

Mirella Firinu, 52 anni, parla al passato perchè in quella stanza colorata d’azzurro di Narbolia, paesello sardo in provincia di Oristano, il letto di Carlo adesso è vuoto. Se n’è andato il 17 settembre del 2008 il vigile del fuoco Carlo Marongiu, ucciso a 57 anni dalla Sla, quella misteriosa e subdola malattia che sta colpendo anche molti calciatori, la ‘maledetta’ che poco alla volta ti soffoca muscoli, parole e respiro ma che ti lascia in vita cuore e cervello. Quella che vi raccontiamo non è solo la storia di una lenta e terribile agonia, con un finale nefasto e già scritto. No, è anche e soprattutto una straordinaria storia di amore: di Mirella per Carlo, di Carlo per Mirella, di Mirella e Carlo per la vita, comunque essa sia. Un amore per sempre. «Non posso certo ringraziare per la Sla — dice Mirella — ma posso ringraziare per la vita che io e Carlo abbiamo passato in compagnia della Sla».

Diciamoci la verità: i conti non tornano. Cosa vuol dire tutto questo? Ma che razza di vita è una tortura simile? Come si fa a ringraziare? «La malattia — prova a spiegare Mirella — mi ha insegnato, ci ha insegnato, che il senso dell’esistenza è solo uno: dare e ricevere amore. Io e Carlo, che prima vivevamo sotto un’ampolla di vetro, con la Sla abbiamo cominciato ad amare davvero. Amare il mondo, noi stessi, gli altri. Tutti gli attimi che la vita ci ha regalato. Attimi che sono diventati pieni e che tante volte, nella normalità, rischiamo di riempire di vuoto. Io ho scoperto la primavera solo dopo la malattia di mio marito. L’ho fatto affacciata alla finestra di quella stanza dove trascorrevo praticamente tutta la mia giornata, tolte le sei ore d’ufficio al mattino: lì, da quella finestra, ho imparato a sentire i profumi, gli odori, a veder crescere i germogli. Abbiamo ricevuto un mare di amore in questi undici anni. Abbiamo spalancato le porte di casa a tutti e solo facendo così si può scoprire quant’è bella la vita. Se io e Carlo fossimo rimasti soli, senza l’abbraccio e la condivisione degli altri, non so cosa sarebbe successo. Mia figlia Ilaria mi diceva sempre durante la malattia del suo papà: “Mamma, può sembrare paradossale, ma ti si legge negli occhi che sei più felice adesso con questa sofferenza rispetto a prima“. Carlo continuava ad essere il capofamiglia; Ilaria e Damiano, i nostri figli, andavano da lui a chiedegli qualunque autorizzazione. Io pure. Lui rispondeva: con gli occhi, ma rispondeva. Ai ragazzi dicevo: a casa nostra decide papà, come sempre».

Da quando Carlo non c’è più, queste cose Mirella ha cominciato a raccontarle in giro per l’Italia, dove tanti la chiamano per testimoniare. Vogliono capire come si fa, in concreto, a vivere felici nonostante una malattia così terribile che sfregia la tua esistenza. Vogliamo tutti capire. A Cassano Magnago, in Lombardia, pensano anche di darle la cittadinanza onoraria. Lei insiste: «Ogni vita può avere un suo significato, anche nella sofferenza si può essere felici. La nostra è stata una storia di amore, di grande sofferenza ma pure di grande gioia, da gridare a chi mi ascolta. E non posso far altro che ringraziare il Signore».

Il Signore. Con lui non sono state solo rose e fiori. Mirella ci ha fatto quasi ‘a botte’, nel 1997, quando al suo Carlo hanno diagnosticato la Sla che in neanche un anno gli ha tolto tutto (la mobilità, la parola, il respiro). Lei la prese (ovviamente) male, malissimo. «Ero arrabbiata col Signore, non riuscivo neppure più a fare il segno della croce. Ho trascorso un anno con questa rabbia dentro. Gli urlavo dietro: “Sono certa che tu non esisti. Sto meglio se penso che tu non ci sei; perchè se ci sei e non mi togli questa sofferenza è tutto troppo crudele”. Carlo era dispiaciuto e mi diceva sempre, comunicando con gli occhi: “Mi auguro che il Signore ti possa perdonare per questa tua ribellione”. È stato l’anno più brutto della mia vita. Ero disperata. A un certo punto ho sfidato di nuovo Dio e mio marito e ho provato a chiedere: vediamo se questo buon Signore alleggerisce e addolcisce il mio cuore che ora è di pietra. Mi sono lasciata andare e quando ho detto sì, è cambiato tutto. Ora posso dire che Dio esiste, fa meraviglie, ma le fa a modo suo, non sempre come vorremmo noi».

Da quel giorno Mirella ha cominciato a scoprire i profumi della primavera, dei fiori, della vita stessa. Ma ciò non toglie — non ha tolto — il dolore. La fatica. Già, perchè quella sveglia continuava a suonare, inesorabile, ogni ora, tutte le sante notti. E allora lo chiediamo a lei come si fa a vivere per undici anni senza praticamente chiudere occhio. «Non sono stata brava io, non mi do meriti particolari. Senza l’aiuto di qualcuno che sta sopra di noi, senza l’infinita grandezza di Carlo, senza la vicinanza di tante persone che riempivano d’amore la nostra casa, probabilmente non ce l’avrei fatta. Due giorni all’anno, Ferragosto e Pasquetta, la nostra casa era vuota: nessuno veniva a trovarci. E allora riflettevo con Carlo: ma se tutti i giorni dell’anno fossero così, ce la faremmo? Ecco perchè non me la sento di giudicare chi si lascia andare, chi si dispera di fronte a situazioni come quelle che abbiamo affrontate noi. Senza aprirti agli altri non ce la puoi fare. Li capisco. Anzi, cancelli quelle due parole. Non dite mai a una persona che soffre “ti capisco”. Non si può capire. Si può solo provare a stare al suo fianco. A chi non ce la fa più posso raccontare la mia esperienza: in tutte le situazioni della vita, anche le più estreme, ci può essere del bello, del buono».

Quelli che non ce la fanno più. Il discorso cade inevitabilmente su Eluana Englaro e sulla vicenda che un anno e qualche giorno fa ha commosso e diviso l’Italia. «Quando Eluana è morta io ho provato tanta tristezza — spiega Mirella — Non giudico suo papà, non sono nessuno per giudicarlo. Però mi dispiace tanto per lui, perchè in fondo prima andava a trovarla questa figlia, ora può solo portarle un fiore al cimitero».

Massimo Pandolfi, «Il Resto del Carlino»

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