Parigi: chi siamo e dove andiamo?
I tragici eventi di Parigi inevitabilmente sono e saranno destinati a sollevare polemiche riguardo alla sicurezza, alla prevenzione, al dialogo interreligioso, alle contromisure da adottare come risposta al terrorismo e molti altri temi. Sia ben chiaro, qui si esprime piena solidarietà alle vittime di questi vili attentati e alle loro famiglie oltre che al popolo francese profondamente disorientato e comprensibilmente spaventato.
Al contempo però non ci si può esimere da una considerazione che per quanto scomoda e impopolare solleva non un problema fra tanti, ma il problema alla radice.
È iniziato il tam tam mediatico che ci farà gridare a gran voce “Je suis Parigi” così come ieri fu “Je suis Charlie”. Lo si dirà nelle piazze, lo si condividerà nei social, lo si scriverà su giornali e striscioni e lo diranno anche politici e capi di stato. Ma la vera questione è proprio quel collettivo “noi siamo”. Infatti può una identità fondarsi semplicemente sul sentimento (pur umano e doveroso) di solidarietà, di pietà e di vicinanza con chi è stato vittima di volta in volta di atti brutali?
Non è forse questo un concetto un po’ semplicistico e piuttosto aleatorio e che rischia di durare il tempo di una indignazione destinata poi all’oblio almeno sino alla tragedia successiva? Insomma una sorta di identità liquida (per usare un termine caro al sociologo Bauman) che si adatta al contenitore che via via le sia presenta, ma che non è più in grado di incidere e soprattutto di essere fondante per una società. Tutto questo affannarsi nel gridare “noi siamo” non vuol forse in realtà ammettere che non sappiamo più chi siamo e che disperatamente vorremmo saperlo o perlomeno riscoprirlo?
Può una comunità di nazioni e popoli come l’Europa accontentarsi di una identità debole, fumosa, che viene richiamata solo in situazioni estreme e dolorose e che de facto rivela un nichilismo di fondo, un “non essere” che risulta fonte di pessimismo ed immobilismo misto ad un sottofondo di acredine per tutto ciò che in qualche modo le ricorda le sue autentiche radici ( emblematico il caso tutto italiano della mostra “Divina Bellezza” di Firenze)? O forse abbiamo bisogno di una identità forte che non giochi in difesa (e nemmeno solo in attacco), ma che sappia davvero farci guardare al passato non per inutili nostalgie, ma per scorgervi stimolo per il presente ed ispirazione per il futuro?
Insomma non conviene forse tornare a guardare a quelle radici cristiane tanto vituperate ma in fin dei conti le uniche capaci di accomunare così tanti popoli e così tante culture?
San Giovanni Paolo II si diceva preoccupato per l’eredità cristiana che l’Europa pareva incapace di custodire e ricordare e cercò con tutte le sue forze di svegliare le coscienze e le menti, ma fu volutamente ignorato. Benedetto XVI ci ricordò con la celebre lezione di Ratisbona che una fede senza la ragione può condurre solo ad un binario morto. Che una fede senza ragione porta inevitabilmente alla violenza del fondamentalismo e che una ragione non illuminata dalla fede porta alla negazione di Dio che è poi negazione stessa dell’uomo. Questi due fantasmi oggi sono divenuti mostri concreti che minacciano l’Occidente e lo feriscono al cuore.
Un fondamentalismo (quello islamico) forte di una violenza inaudita e di una capacità di attrarre proseliti militanti che si impone crudelmente là dove diviene maggioranza (anche nei confronti dei suoi correligionari) e, là dove non lo è, con attacchi mirati come quelli di questi giorni, ricorda che può comunque colpire quando, dove e come vuole. Un nichilismo masochista (quello Europeo e più in generale Occidentale) che si autoalimenta e si compiace nel recidere quelle poche radici che ancora lo saldano alla realtà e che cerca nuovi consensi e nuovi idoli in un politicamente corretto che finisce di giovare ai suoi più acerrimi nemici.
Ragionare su queste problematiche potrà essere doloroso e scomodo ma è l’unica possibilità che ci permetta di andare oltre al solito (purtroppo) velo di ipocrisia che ammanta di volta in volta questo nostro pezzo di mondo.
Andrea Musso