L’ultimo grande Magistero del Papa Teologo
Le dimissioni del Papa Benedetto XVI stanno creando scalpore e talora sono viste come segno di debolezza. Nell’annunciare il suo ritiro il Papa, accennando ad una scelta di segno opposto del suo predecessore Giovanni Paolo II, che volle restare in carica anche quando ormai poco efficiente per la sua grave malattia, ha sì ricordato che «questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando». Ma il Papa Teologo ha voluto darci l’ultima grande lezione, e proprio sul significato più vero del ministero petrino.
Già Giovanni Paolo II aveva auspicato che si potesse «trovare una forma di esercizio del Primato che, pur non rinunciando in nessun modo all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova…, giacché per delle ragioni molto diverse e contro la volontà degli uni e degli altri, ciò che doveva essere un servizio ha potuto manifestarsi sotto una luce abbastanza diversa…». E aveva aggiunto, con particolare riguardo al dialogo ecumenico, che spesso vede nel Papa non uno strumento di unità ma un ostacolo: “Lo Spirito Santo ci doni la sua luce…, affinché possiamo cercare, evidentemente insieme, le forme nelle quali questo ministero possa realizzare un servizio di amore riconosciuto dagli uni e dagli altri” (Ut unum sint, 1995, n. 95).
Quando il cardinal Ratzinger era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, affermava: «“La Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo” (Lumen gentium, n. 48). Anche per questo, l’immutabile natura del Primato del Successore di Pietro si è espressa storicamente attraverso modalità di esercizio adeguate alle circostanze di una Chiesa pellegrinante in questo mondo mutevole. I contenuti concreti del suo esercizio caratterizzano il ministero petrino nella misura in cui esprimono fedelmente l’applicazione alle circostanze di luogo e di tempo delle esigenze della finalità ultima che gli è propria (l’unità della Chiesa). La maggiore o minore estensione di tali contenuti concreti dipenderà in ogni epoca storica dalla “necessitas Ecclesiae“. Lo Spirito Santo aiuta la Chiesa a conoscere questa “necessitas” ed il Romano Pontefice, ascoltando la voce dello Spirito nelle Chiese, cerca la risposta e la offre quando e come lo ritiene opportuno».
Ora il Papa Teologo vuole in qualche modo, con la sua scelta, “desacralizzare” il Papato come spesso è stato inteso dal Medioevo in poi: il Papa come “Santo Padre”, “Dolce Cristo in terra”, quasi il surrogato vivente di Gesù. Ciò che conta, afferma Benedetto XVI con le sue dimissioni, non è la persona, ma il ruolo. Il senso più vero del papato è quello “ministeriale”, di servizio all’unità della Chiesa, servizio che deve cessare quando non si è più in forze per svolgerlo fruttuosamente. Si ritorna così al concetto che ne aveva la Chiesa dei primi secoli, quando la Chiesa non era vissuta come organizzazione piramidale e verticistica, ma il Vescovo di Roma era colui che diceva l’ultima e definitiva parola tra le questioni che sorgevano tra le varie Chiese sorelle, e pertanto il garante e il custode ultimo dell’unità di tutta la Chiesa. «Il Vescovo della sede romana non è “più” Vescovo di colui che presiede una Chiesa locale. Il Papa, però, svolge in maniera unica il suo ministero, quello dell’unità, che è a favore di tutti i Vescovi» (S. T. Stancati).
Presentandosi alla Chiesa e al mondo come un qualunque Vescovo che, a una certa età, rassegna le dimissioni perché non più pienamente in grado di svolgere il suo ministero, il Papa non dà, come dice qualcuno, la visione di un Chiesa che cerca l’efficienza, ma quella di una Chiesa tutta di Cristo in cui ciascuno è chiamato a servire in umiltà (Lc 17,10).
È questo un grande passo anche in senso ecumenico, perché se le altre confessioni cristiane rifiutano una concezione “sacrale” del pontificato, possono invece ben aprirsi a considerare la grande primitiva tradizione che vedeva nella Chiesa di Roma, come già scriveva Ignazio di Antiochia all’inizio del II secolo, quella «che presiede alla carità» («prochathemène tès agàpes»), con una «una vera posizione di preminenza nella fede e nell’amore» (K. Bihlmeyer, H. Tuechle), utile, anzi indispensabile per tutti coloro che vogliono essere discepoli di Gesù.
Le dimissioni di Benedetto XVI sono quindi l’ultimo grande Magistero del Papa teologo.
Carlo Miglietta