Divorziati e risposati: la Chiesa è anche la loro casa (5/5)

I divorziati risposati a volte sentono dire che nella loro condizione la decisione di accostarsi o meno alla comunione eucaristica dovrebbe essere lasciata alla loro coscienza personale. Questa è un’affermazione che si fonda su un concetto problematico di “coscienza” ed è già stata respinta dalla Lettera della Congregazione per la dottrina della fede circa la recezione della comunione eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati del 1994.

Non basta infatti avere la convinzione soggettiva che il proprio matrimonio non sia valido, per poter essere in comunione e fare la comunione. Il matrimonio non riguarda solo il rapporto tra due persone e Dio, ma è anche una realtà della Chiesa, in quanto sacramento, sulla cui validità è tenuta a decidere essa stessa, nella quale ciascun fedele è incorporato mediante la fede e il battesimo. La recezione di nessun sacramento, infatti, si può basare su ragioni interiori. Ci vogliono disposizioni oggettive per poter essere in comunione e non soltanto la buona volontà personale, che sempre è disposta in qualche misura ad auto-assolversi.

Certo è che la mentalità contemporanea si pone alquanto in contrasto con la comprensione cristiana del matrimonio indissolubile e aperto alla vita. Poiché molti cristiani sono influenzati da questa mentalità, è molto probabile che oggigiorno, rispetto al passato, siano numerosi i matrimoni celebrati invalidi, a causa di una mancata comprensione del significato reale di quanto si compie e di un’appartenenza ridotta a un contesto vitale di fede vissuta che può sostenere il cammino dei nubendi prima e degli sposi poi. Pertanto, una verifica della validità del matrimonio è sempre importante. Tuttavia, questa non può essere condotta che dalla competente autorità giudiziaria ecclesiastica.

Un altro atteggiamento sbagliato da adottare è quello secondo il quale da una legge si può derogare, perché essa vale sì in termini generali, ma non sempre l’azione umana vi può corrispondere totalmente. Un tale atteggiamento non può essere assunto dai divorziati risposati per poter fare la comunione, perché l’indissolubilità del matrimonio sacramentale è una norma di diritto divino, confermata personalmente da Gesù, e non può essere mutata da alcuno.

Ancora, non è appropriato invocare la misericordia divina per ammettere i divorziati risposati alla comunione. Infatti, è vero che Gesù ha solidarizzato con i sofferenti, ma altrettanto è vero che tutti i sacramenti sono opera della misericordia divina e dunque essi non possono essere revocati richiamandosi allo stesso principio che li sostiene. E, tra l’altro, non bisogna dimenticare che Dio, oltre che misericordia, è pure santità e giustizia, come mostra bene, ad es., Gesù quando alla donna adultera perdona il suo peccato, ma le dice: «Va’, e non peccare più» (Gv 8,11).

In conclusione, dunque, si può vedere che la Chiesa non considera i divorziati risposati fuori dalla comunità dei fedeli. Anzi, essa li accompagna e si prende cura di loro e gli offre, con la disciplina dei sacramenti, di testimoniare a loro modo, non facendo la comunione, che il matrimonio è indissolubile. Il non poter ricevere l’eucaristia non li esclude dalla possibilità di entrare in comunione con Dio. Questa, infatti, si raggiunge anche con l’unione a lui nella fede, nella speranza e nella carità, nel pentimento e nella preghiera. Se quella dei sacramenti è la via maestra per giungere a Dio, ciò non significa che non vi siano altre vie laterali, certo meno battute, che però conducono ugualmente a lui, seppur con qualche fatica e disagio in più da affrontare.

d. Mauro

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