Rio 2013: povertà, Parola, pregare
Rio de Janeiro, 27 luglio – Papa Francesco è stato accolto giovedì sera sulla spiaggia di Copacabana da una marea multicolore di giovani. Un abbraccio ideale e ricambiato dal Santo Padre, che spesso faceva fermare la papamobile per benedire un bambino, stringere una mano, accarezzare un invalido… La prima parola del Papa è stato un invito: “Bota fé”, cioè “metti fede”. Ma con una sfumatura semantica che mi ha ricordato quelle parole udite tante volte da bambino e da ragazzo: “Buta cognission”, “usa saggezza” in un’espressione piemontese un po’ intraducibile. Quel “mettere” è anche un “usare”, “fare tesoro”, “far fruttificare”. Ecco cosa fare della fede!
Le parole del Santo Padre si intrecciano alla Parola del Signore contenuta nelle scritture e che torna così spesso in queste giornate… Già, la Parola, le parole… Udiamo così tante parole, da ogni dove, a tal punto da sembrarne inflazionati… Eppure la parola è ciò che ci permette di esprimere il pensiero, ciò che ci portiamo dentro, di comunicarlo oggettivamente. Parole sono ciò che trasformano il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo durante la Messa; parole sono quelle usate per accusare i propri peccati, così come quelle che il sacerdote pronuncia per garantirmi che il Signore me li ha perdonati; parole solo le preghiere che salgono al cielo, come pure il veicolo attraverso cui il buon Dio si rivolge a noi… Dobbiamo proprio scremare le parole, selezionarle. Come sempre, in ciò che ci circonda, ci tocca separare le pecore dai capri, bene da male.
Questo, i giovani della GMG pare l’abbiano capito. Tanti si confessano, nei giorni di Rio. Sarà perché trovano molti sacerdoti a disposizione. Oppure, sarà perché il clima della GMG favorisce l’incontro personale col Signore, la conversione del cuore. Ma più che le cause, contano gli effetti: persone nuove, pentite e riconciliate con Dio. Quale mirabile sacramento! Quale mirabile dono poter dare l’assoluzione, come prete! Aver percorso oltre 9mila chilometri per arrivare fin qui e aver potuto confessare anche solo una persona che il buon Dio ha sospinto da me, per potersi servire proprio di me per darle il suo perdono… beh, vale certo la pena!
Così come vale la pena vedere la povertà di questi posti, mescolata alla vita quotidiana con una ferialità che non stupisce, forse, se non lo straniero. Case abbandonate, perché non c’è la cultura della manutenzione e, dunque, ci si trasferisce, piuttosto che restaurare; oppure ambienti fatiscenti, che potrebbero a malapena essere utilizzati come magazzini, vengono offerti come luoghi per l’ospitalità dei pellegrini; le favelas, con i più poveri e nullatenenti della società, ammassate alle montagne all’interno della città… Eppure, anche da questo c’è da imparare. Perché le stesse persone che vivono in queste condizioni si danno un luogo che è sempre bello, ordinato e presentabile: la chiesa. Il luogo dell’incontro privilegiato col Signore si distingue, è un luogo “altro”. E non è segno di una Chiesa ricca che risalta e forse infastidisce, a confronto con la povertà. La Chiesa sta dalla parte dei poveri. Forse è l’unica ricchezza degli ultimi. Forse è per questo che essi hanno fiducia nella Chiesa. E che, quando vanno in chiesa, sono contenti di trovare e offrire a Dio tutta la bellezza della speranza che solo la fede in lui può donare loro. Amandoli nella sua carità, che è di tutti. Che è l’unica ricchezza che conta. C’è molto da imparare, da tutto questo. Soprattutto per i benpensanti come noi europei, come noi italiani. Che facciamo presto a dire come la Chiesa dovrebbe essere, partendo dalle chiese di mattoni. E invochiamo povertà (o sciatteria e gusto del brutto?), là dove i poveri stessi si dotano del meglio che possono. Abbiamo davvero molto da imparare. Anche grazie a una GMG.
don Mauro