Santena, la città di Carlo Broglia (2/4)
Il primo decreto pastorale dell’arcivescovo Broglia, nel gennaio 1593, riguardò la santificazione delle feste. Evidentemente, la questione, già all’ordine del giorno oltre 400 anni fa, è spesso stata d’attualità nella storia. Monsignor Broglia vietava ai sarti, ai fabbri, agli artisti, ai barberi, ai conducenti di carri e carrozze di esercitare il loro mestiere nei giorni festivi; e altrettanto proibiva ai negozianti di tener aperta bottega, così come ai librai, ai venditori di carte da gioco e di immagini, e di esercitare il loro mestiere ai mugnai e panettieri. Gli unici autorizzati a vendere erano i fruttivendoli che si recassero in città dalle campagne, ma soltanto negli orari prefissati e in luoghi pubblici. I trasgressori erano multati con pena pecuniaria da applicarsi in opere pie e con altre pene minori.
Di fatto, questa prima iniziativa dell’arcivescovo semplicemente ribadiva e rinnovava quanto disposto già dai suoi predecessori, come il cardinale Della Rovere, che evidentemente era andato disatteso. Infatti, gli stessi ordinati della Città di Torino, già del 1421 riportavano disposizioni analoghe. La tendenza a far cassa, trascurando il riposo festivo, pare essere connaturale all’animo umano, se nei secoli perdura. E proprio per questo va combattuta.
Il 19 febbraio sempre del 1593, monsignor Broglia emanò un secondo editto pastorale, concernente l’astinenza e il digiuno quaresimali, con il quale si proibiva l’uso di carni, uova e latticini a tutte le persone, eccezion fatta per coloro che ne dovessero essere esentati per ragioni di infermità o d’età. Inoltre, l’editto esortava tutti i fedeli al assistere quotidianamente alla Messa, ad ascoltare ogni giorno la Parola delle Scritture, a celebrare ogni domenica i sacramenti del Perdono e dell’Eucaristia. Commenta il Semeria, nella sua Storia della Chiesa metropolitana di Torino, pubblicata nel 1840: «Se questi decreti si confrontano con la pratica d’oggi giorno, veramente ci confondono; e tuttavia in allora si osservavano universalmente, né certo trovavasi alcuno che all’aperto ardisse di trasgredirli» (p. 296). La considerazione è ancora una volta d’attualità.
Infine, terzo ed ultimo decreto d’inizio episcopato, fu promulgato da monsignor Broglia il 5 marzo 1593. Esso stabiliva le qualità e disposizioni necessarie ai chierici per essere ammessi ai sacri ordini, secondo quanto indicato dal Concilio di Trento, ivi compreso l’obbligo di indossare la veste talare, i buoni risultati negli studi, nella pratica pastorale e nell’insegnamento del catechismo.
Da queste tre prime disposizioni, si evince chiaramente come l’arcivescovo Broglia fu uomo zelante e fervoroso, attento alla devozione del popolo di Dio e alieno da ogni mondanità. Atteggiamento che ne fecero un pastore di alta levatura e spiritualità, poco disposto alle frequentazioni di corte, pur restando in ottimi rapporti con il Duca Carlo Emanuele I. La sua ottima vita, pia e zelante, «era il modo più idoneo per coinvolgere clero e laici nell’opera di riforma conciliare, che fu l’inderogabile e necessario programma del suo episcopato», come ricorda il Tuninetti nel suo Il cardinal Domenico Della Rovere e gli arcivescovi di Torino dal 1515 al 2000, pubblicato nel 2000 (p. 76).
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